martedì 7 giugno 2011

Diario di un L.P.2-La Cena

 LEGGI LA PRIMA PARTE
Come arrivammo nel refettorio, uno dei frati si mise a berciare: -Ma Giuda dov’è? Si trattava del gatto (Giuda, che nome buffo per una bestia) perché quel frate aveva intravisto un topo. Io nemmeno l’avevo notato: figuriamoci, in aperta campagna, solo un topo. Quasi un miracolo. Evidentemente lì dentro si teneva alla pulizia. Peccato solo per l’arredamento: tavolacci smozzicati e panche tarlate era il non plus ultra per quei quindici religiosi.

Io ho sempre pensato alla fortuna dei frati di S. Maria delle Grazie, a Milano. Poter contemplare un capolavoro come L’Ultima Cena (Leonardo da Vinci, non so se mi spiego) mica era cosa da poco per dei tonacati riuniti a mangiare. La regola monastica di S. Benedetto infatti fu dettata da tutto fuorché da uno scherzo. Durante i pasti, ascolto delle Sacre Scritture, della cui lettura ad alta voce veniva incaricato un monaco a rotazione settimanale. Il lettore avrebbe mangiato dopo. Giusto un po' prima, se questo era d’aiuto a sopportare la fatica. Durante la lettura, obbligo del silenzio più assoluto; ci si poteva esprimere soltanto a gesti.
Ma per fortuna le regole erano fatte per essere infrante, e quella di S. Benedetto non faceva eccezione. Sembrava di essere in un’osteria, forse peggio. Non solo nessuno leggeva niente, ma la conversazione era tanto concitata che a tratti diventava sguaiata. Tra un tortellino e una fetta di mortadella (la nuova leccornia bolognese per eccellenza il cui pregio aveva superato di gran lunga quello del prosciutto, e la cui fama si era spinta talmente in là da venir commerciata perfino nelle Americhe), nonché domande urlate da ogni dove, mi riuscì finalmente di dire: -Si, ripartirò domani.


 
BUM… silenzio improvviso. Manco avessi urlato una bestemmia. Be’, che avevo detto di tanto male?
-Ma non potete andarvene domani - intervenne fra Bartolo-.
-Perché? Sono venuto qui solo per il libro.
-Appunto –fu la volta di fra Celestino- il libro non è qui.
Ecco come far mandare di traverso il vino a qualcuno. Attaccai a tossire e alcuni di loro cominciarono a darmi colpi sulla schiena per farmela passare; quando si dice la premura. Per poco non me la sfondarono la schiena, altroché.
-Non è niente, non è niente, sto bene –dissi scacciandoli- come il libro non è qui? Che significa?
-Non è in nostro possesso –continuò fra Celestino- perché purtroppo…
-Avete informato il vescovo di questo libro –lo interruppi io- costui ha informato Roma e io sono stato mandato appositamente qui per prenderne possesso. Ora invece mi state dicendo che non c’è!

Frate Bartolo, il vecchio sdentato con l’alito puzzolente che mi aveva accolta in chiesa, fece uno dei suoi sorrisi: -Vedete signor legato… non abbiate a pigliarla a male… ma anche a noi la notizia dell’esistenza di questo libro è giunta. Però non è mai stato in nostro possesso. Ce l’ha una comunità di anacoreti che vive nei pressi di un minuscolo borgo poco lontano dal nostro convento.
Fra Bartolo aveva usato il termine anacoreti, la parola derivante dal latino anacoretae, che significava: colui che vive ritirato. Non era che il corrispettivo del termine greco monos, ovvero solo, da cui poi derivava l’usuale monaco. Evitando di chiamarli semplicemente eremiti, com’era più logico aspettarsi, ne dedussi che il vecchio fra Bartolo fosse istruito. Cosa tutt’altro che scontata, nonostante il saio.
-Non capisco la differenza –continuai-. Potevate farvelo consegnare. Lo sapevate che sarebbe stato mandato qualcuno da Roma. Ci sono forse problemi?
-In che senso?
-Intendo, questi anacoreti non intendono separarsi dal libro?
-No no –intervenne un frate ciccione di cui Curzio ignorava il nome- il fatto è che occorre un giorno intero di viaggio per raggiungerli. E solo ora la stagione lo permette. Fino adesso faceva buio troppo presto.

-Capisco.

-E poi –s’intromise di nuovo il vecchio fra Bartolo- abbiamo dovuto accudire il nostro povero abate.


Già. Mi era passato del tutto di mente. Anche ai frati a dire il vero, ma volli comunque rimediare alla scortesia.

-Quando è morto? –Chiese-

-Ieri notte.

Dalle condizioni in cui lo avevo visto quella mattina, sembrava morto da un anno.

-E di cosa?

-Non lo sappiamo. Pativa un malanno assai pietoso da molto tempo. Non mangiava quasi più niente e… combatteva contro un’incontenibile uscita di feci.

Il vecchio fra Bartolo misurò bene quelle parole ma gli altri trattennero comunque il riso a stento. Ecco il perché della brutta fama del riso come strumento del demonio. Impossibile altrimenti capire perché prendesse sempre nei luoghi e nei momenti meno adatti. Purtroppo anche a me veniva da ridere, così provai a rendere il tutto un po’ meno giocoso osservando come quella strana malattia fosse la stessa toccata in sorte a papa Innocenzo X.

Bravo Curzio, fu come curarsi il mal di denti con una martellata: se l’immagine di un vecchio abate che smerdava qualsiasi cosa gli capitasse sotto tiro faceva ridere, quella di un papa... lasciamo perdere. Meglio tornare al discorso di prima.

-E questi anacoreti –chiesi- sono per caso quietisti?

-Naturalmente –mi rispose premuroso il frate ciccione-.


Naturalmente.


Una concezione etica in cui si sosteneva la nullità di ogni azione volontaria e l’ineluttabile fatalità di ogni evento. Il quietismo. Divampato come un fuoco. Quasi una mania oramai. In esso veniva teorizzato un totale abbandono a Dio per amarlo e servirlo con la quiete e l’oblìo, senza alcuna produzione di opere. I quietisti andavano cercando l’annullamento completo dalla realtà secolare per rimettersi alla volontà divina. La cosiddetta “orazione di quiete” o “di silenzio” era il mezzo mistico col quale il perfetto quietista diventava una “canna vuota” suonata da Dio a suo piacimento, per la realizzazione dei suoi fini segreti. Il movimento era stato fondato a Roma da prete spagnolo Miguel Molinos come risposta cattolica a tutto quel casino fatto da Lutero in materia di libero arbitrio e predestinazione E io proprio non riuscivo a capire dove stesse la sua efficacia. Che poi mica era faccenda solo da preti. Anche molti laici diventavano quietisti. Ma sia gli uni che gli altri di solito non creavano problemi. Però c’era una postilla non proprio da poco: il movimento quietista vaticinava infatti una società di perfetti, riuniti in un unico ovile come agnelli innocenti. Agnelli non caduti e immuni da peccati. Questo perché il quietista, privo di volontà propria, non poteva commettere colpe. Né peccati veniali, né tantomeno mortali. Egli si sentiva un “impeccabile”. Quindi poteva succedere (e succedeva) che questa gente si montasse la testa. E diventasse fanatica. E allora erano guai. Io ne diffidavo non poco e speravo di cuore che quelli fossero quietisti autentici, ovvero quieti.

-E come ha fatto una comunità di quietisti a venire in possesso di quel libro? –Chiesi al frate ciccione-.

-Un dono di qualcuno di passaggio. Sono santi uomini, molta gente fa loro la carità.

-Fra Ubertone li conosce bene –s’intromise fra Clemente-. E’ cugino con uno di loro.


Quindi era quello il suo nome: Uberto; storpiato in Ubertone a causa della mole. Ma non si trattava di faccende per cui un frate avesse a pigliarla a male. Se uno del calibro di Jacopo de’ Benedetti non fece una piega a che lo chiamassero Jacopone da Todi, chi era quel grassone per incavolarsi?

Basta. Era stanco del viaggio e volevo mettere fine a quella serata.

-Cari fratelli –spiegai- credo di aver capito come stanno le cose. Purtroppo non potrò trattenermi alla S. Messa funebre per il vostro abate. A Roma vogliono risolvere questa faccenda al più presto. Quindi domani sarò costretto a partire subito dopo il Mattutino.

-Ma non potete andare –mi fece notare fra Ubertone-. Non conoscete la strada.

-Caro fra Ubertone, non pensate che di quindici confratelli quali siete, almeno uno di voi non sia così gentile da indicarmela?

-Non è questo il punto. Il fatto è che non c’è una strada.

-Come sarebbe a dire che non c’è?

-No. Bisogna attraversare il bosco ma non ci sono sentieri precisi. Io sono l’unico che sia in grado di arrivarci. Ogni anno, durante la stagione buona, mi reco là a trovare mio cugino almeno un paio di volte. Oramai ho memorizzato tanti piccoli particolari, quindi riesco ad arrivarci agevolmente. Ma voi vi perdereste di sicuro.

-Be’, poco male. Vorrà dire che mi accompagnerete.

-Ma non è possibile –intervenne di nuovo il vecchio fra Bartolo-. Da domani dovremo riunirci in Capitolo per eleggere il nuovo abate. Fra Ubertone non può mancare.

-Avete detto che occorre una giornata di cammino. Se aspetterete due giorni prima di cominciare l’elezione non sarà certo la fine del mondo!

Fra Bartolo sorrise di nuovo: -Oh, ma non dovete preoccuparvi. Il Capitolo è solo una formalità. Siamo già concordi su chi dovrà essere il nuovo abate, e saremo noi ad essercela sbrigata in capo a due giorni. Vi costa tanto aspettare?

Mi costava? Ci pensai, ma neanche troppo. Due giorni di riposo e di pasti succulenti. No, non mi costava.

-E va bene –convenni infine- aspetterò.
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