sabato 28 maggio 2011

Diario di un L.P.1-L'arrivo di Curzio

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Da Bologna ero partito poco prima che sorgesse l’alba. A differenza dell’agro romano, lì i campi eran tenuti meglio; ahimé altrettanto non poteva dirsi per quelle strade: sconnesse e piene di buche; più scassate di un vecchio appestato. Ma di maledirmi per quel viaggio in carrozza (poco ma certo avrei impiegato di meno se avessi scelto di muovermi a piedi), mi andava all’incirca come cavarmi tutti quanti due gli occhi.

L’umor malinconico, o bile nera (uno dei quattro elementi che nella teoria galenica regolavano la complessione umana) a me difettava come la grazia tra un branco di Unni. Un cardinale mio vecchio amico asserì una volta: “Questo tuo pigliar le cose come vengono ti fanno assomigliare di più ad un protestante che ad un cattolico romano”. Ovvero, un magnifico esempio d’osservazione senza alcuna spiegazione di causa, mentre, secondo me, era presto detto: concedete a un uomo dei privilegi, e conoscerete l’ingratitudine. Osservatelo mentre se li guadagna, e conoscerete la soddisfazione.

Non era mica un caso se all’epoca gli artisti raffigurassero la melanconia in forma di donna.

Perché al di là del bene che ne pensasse un altro mio amico (sosteneva l’indiscussa dote della femmina come appartenente all’unica razza di animali domestici a cui si potesse insegnare a non aprir bocca), eran per lo più le donne a vantare un credito di scontentezza nel nostro soggiorno da creature mortali. E gli artisti, si sa, sono buoni osservatori: mai e poi mai avrebbero personificato la melanconia in fattezze d’uomo. Soprattutto in uno della mia condizione.


Il brutto dei viaggi, in quei tempi, consisteva in totali e smaccate mancanze. Nessuna garanzia di svoltare all’incrocio giusto; nessuna garanzia di non cadere vittima dei briganti; nessuna garanzia di trovare alloggio prima di buio. Un po’ come l’atto amoroso insomma: sapevi dove volevi arrivare, ma non sapevi quanto sarebbe durato.

Io difatti non lo sapevo.

Mi ero appena addormentato che uno scossone mi riportò al mondo. Mica aveva rallentato quel pezzo di ciuco. No, si era fermato di colpo!

Il mondo era pieno di zotici e certi cocchieri ne reclamavan la palma.

Quello lì, prima ancora di urlarmi: “Siamo arrivati!”, raschiò la gola e sputò per terra un disgustoso ammasso di catarro nero che… be’, non cercate paragoni perché col cavolo li troverete (io almeno non ci sono mai riuscito).

Non s’incomodò neppure di scendere dalla cassetta.

Scesi a mia volta; chiappe e gambe indolenzite (più che altro chiappe appiattite), sbadigliai e m’accostai a una ruota.

Mentre pisciavo, non trovai di meglio che ammirare il piccolo convento benedettino di fronte a me. Non certo una visione nuova, ma ogni volta mi stupivo nel constatare come la maestosità non c’entrasse niente con le misure ampie. Contavano solo le proporzioni, e anche la più piccola delle chiese romaniche poteva competere con la più imponente delle cattedrali gotiche.

L’unica nota stonata era semmai quel “Cristo della domenica”. Non solo una prassi ormai, ma una vera e propria mania. Non esisteva chiesa di campagna che non ne recasse una sopra al portone.

Si trattava di immaginette di nessun pregio artistico, appese lì solo per un rimprovero: un Gesù ferito da molti attrezzi da lavoro, soprattutto quelli usati dai contadini.

Vi spiego.

La domenica, giorno del Signore, era (e mi sfugge se lo sia ancora) proibito lavorare. Questo almeno in teoria, perché sebbene tutti andassero a messa, molti, soprattutto tra i contadini, non sentivan ragioni di dedicare un giorno al dolce far niente. Per quello certe immaginette si chiamavano il “Cristo della domenica”.

Finito il bisogno m’accorsi che in giro non c’era nessuno. Né frati né contadini al lavoro sui campi. Strano davvero.

Mi avvicinai al portone è sentii un mormorio. E non appena entrato, mi si svelò l’arcano: quindici frati e un numero imprecisato di contadini raccolti in preghiera attorno a una salma.

E adesso?

A trarmi d’impaccio ci pensò un religioso. Come mi vide mi si fece incontro.
-Benvenuto signor legato –disse sottovoce-
Lo guardai stupito. -Come avete capito chi sono?
Il frate sorrise e mise in mostra i suoi pochi denti (per la precisione soltanto tre: due bacati e uno sbeccato).
-Dagli abiti –rispose lui-.
Furono sufficienti quelle due parole a farmi conoscere il significato di alito fetido. Per l’esattezza aglio, cipolla, e altri innominabili aromi (anche se direi per la maggior parte cipolla).

Dagli abiti”.

Mica vestivo divise di sorta! Ma certo… che stupido. Forse il frate alludeva alla mia eleganza.

A dire il vero indossavo abiti comodi adatti al viaggio ma di alcun pregio. Però eravamo pur sempre in aperta campagna.
-Ci rincresce che sia arrivato proprio in questo momento.
-Dispiace anche a me, ma purtroppo ho poco tempo. Devo vedere il priore immediatamente. Siete voi per caso?
Il frate sgranò gli occhi. -No!… Cosa ve lo fa pensare?
Il fatto che avete cent’anni, forse di più”. Lo pensai ma non lo dissi.
-Sareste così gentile da indicarmelo allora? –dissi invece-.
-Certamente. Venite.

Ci facemmo largo fra la folla di fedeli e vi giuro è difficile che io mi imbarazzi. Però è anche vero che non mi era mai capitato di aver addosso tanti sguardi ammirati. Agli occhi di quella gente (capirai, portavano lo stesso indumento tutta la vita), dovevo apparire come un damerino piovuto dal cielo o dalla corte di Francia.

L’ho sempre detto io.

Con buona pace dei francescani spirituali (per capirci, quelli che intendono la povertà proclamata da Cristo alla lettera), il fascino e il rispetto per il potere si esercita sul popolo anche grazie ad un vestiario prezioso ed elaborato, altro che storie.

Raggiunti i suoi confratelli, il vecchio frate indicò la salma. E quasi a scusarsi disse: -Vi presento il priore.

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