sabato 21 maggio 2011

Diario di un Legato Pontificio - Mi Presento.

Salve  a voi.

Mi chiamo Curzio. Curzio Graziano Malatesta. Vi appare un nome curioso? Anche a me, oggi. Ma quando nacqui appariva semplice, direi elegante... se non proprio nobile.
 
Ai tempi miei mica esistevano simili attrezzi. Si vergava su carta (se si sapeva scrivere), e un diario, come quello mio, pigliava la polvere e rimaneva anonimo. Solo col forse (e a Dio piacendo), la posterità ne avrebbe goduto.
Vi dico il vero: sarebbe un peccato. Ciò che mi accadde fu più di quanto potessi immaginare, e magari vi diletterete a leggerlo.

Innanzi a tutto però, bisogna vi spieghi un pochino di cose, perché i tempi in cui vissi io non son certo quelli di adesso.




Eh no, eran tempi difficili, sebben variassero le valutazioni: per alcuni addirittura pessimi; tremendamente pessimi secondo altri.



Attraverso il decadimento di tutte le cose, il mondo dimostra che la sua fine è prossima. In inverno cade meno pioggia, così i semi non germogliano più. In estate il sole è tanto debole, che i frutti non maturano più. La primavera non è più gradevole, l’autunno non è più ricco di frutti. Le cave di pietra sono esaurite, non danno quasi più pietra né marmo. Le miniere d’oro e d’argento sono esaurite. Sono parole del vescovo di Cartagine S. Cipriano che le scrisse nel 251 d. C. Come dire: ogni epoca ha il suo menagramo che non c’azzecca.



Purtroppo però, in quel 1682 qualche motivo valido per cui preoccuparsi c’era davvero.



Innanzitutto i turchi.



Dopo quasi un secolo (la batosta di Lepanto del 1571), s’eran ficcati in testa di conquistar di nuovo tutta l’Europa. E arrivati ormai alle porte di Vienna, ci stavan pure riuscendo bene.



La maggior parte dei bottegai, dei contadini o dei mendicanti, di questi turchi ne avevan forse qualche nozione, ma di quelle strambe raccolte in strada, dentro a un bordello o in un’osteria.



Tale lacuna non sfuggiva di certo ai preti, e nelle funzioni, dai loro pulpiti non era insolito sentir tuonare: “Cari fratelli, se costoro vinceranno, tutti quanti saremo soggiogati sotto l’egida ferrea del credo islamico, e tutti quanti verremo sgozzati o impalati”.



Per quanto mi riguarda eran parole inutili, poiché una bella decapitazione o un bel palo nel deretano ai preti (quantomeno a quelli che non si fossero cambiati d’abito) nessun di certo l’avrebbe negata. Ma che senso aveva spaventar la gente senza lasciar loro alcuna speranza? Fossi stato io prete, avrei detto: “Cari fratelli, se costoro vinceranno, manderanno a farsi benedire tutte le chiese, gli arredi sacri e i capolavori d’arte realizzati a maggior gloria di Nostro Signore”.



A quel punto, il popolo, sapendo che il Padreterno non avrebbe mai permesso uno scempio del genere (e quindi col cavolo che avrebbero vinto), avrebbe continuato a batter la moglie e pigliar sbornie con l’animo in pace e il cuore sereno.



Tuttavia, che i turchi vincessero o meno, buona parte d’Europa c’era già andata da un pezzo a farsi benedire. E non per colpa di carestie o pestilenze le quali colpivano puntualmente come... come carestie o pestilenze.



No.



S’era trattato di uno scisma da cui la Chiesa cercava ancora di rabberciare i cocci. E tutto per colpa di un monaco: Lutero, quel “rozzo sassone”, come lui stesso si definiva (o “brutta bestia” come lo definivano altri).



La Chiesa Cattolica conservava salda la pratica dell’indulgenza, ovvero del perdono tramite confessione (e, si sperava, pentimento). Ma quel perdono poteva benissimo venir rafforzato se accompagnato da qualche opera: niente di che, bastava un pellegrinaggio o meglio ancora una bella crociata.



Tuttavia, se proprio si era di indole pigra, o si temeva di ritrovar due figli (in più e di chissà chi) al proprio ritorno, la suddetta indulgenza si poteva comprare.



Proprio nel momento in cui Lutero definiva la sua dottrina, a Roma si faceva incetta di ingenti somme per costruire la Basilica di San Pietro.



Anzi, fu proprio quella la scusa del suo dissenso. Ma si trattò, appunto, solo di una scusa.



Perché?



Perché Lutero era angustiato dall’idea della dannazione, ecco perché.



Sebbene ligio alla vita da monaco, arrivò a dire: “Non amavo quel Dio giusto che puniva il peccatore, anzi lo odiavo”.



Poi un bel giorno ebbe un’illuminazione: la percezione netta che il Signore lo avrebbe ammesso a godere della sua divina luce in Paradiso anziché ad arrostire il suo grasso culo giù all’Inferno.



Forte di tanta convinzione, pensò bene che la salvezza fosse faccenda di sola fede, senza alcun bisogno delle opere. Celeberrima la sua conclusione al commento della lettera ai galati: “Maledica sit caritas!” (maledetta sia la carità), nonché la sua sentenza: “Dio sceglie chi vuole senza nessuna continuità fra questa sua scelta e l’esperienza dell’uomo”.



Un Dio che poteva salvare anche il più brutto e laido dei delinquenti (senza che questi si pentisse affatto), e di dannare il più pio e devoto fra esseri umani (senza motivo), era forse l’immagine di un Dio un po’ matto. Ma tant’era.



Come finì?



Come volete che finisca quando qualcuno piglia sul serio le fisime di qualcun altro?



In farsa.



Se la Chiesa era corrotta e il papa un Anticristo (Lutero lo definì proprio così), essa perdeva all’istante tutta la sua legittimità. Pertanto affidarsi alle Sacre Scritture era tutto ciò che occorreva ad un buon cristiano.



Con un problema però: se ogni cristiano è libero d’interpretare le Scritture, perché dovrebbe farlo come dice Lutero? E infatti ancora prima che questi morisse, un numero enorme di protestanti s’affidò a una corrente piuttosto che a un’altra.



Ora, Lutero era arrivato dov’era perché si era opposto alla Chiesa di Roma. Quindi non poteva certo fondarne una che stabilisse regole uguali per tutte.



Come risolse allora il problema? Rimettendo tutto nelle mani dei nobili (scambiando di fatto una struttura gerarchica per un’altra).



E come il villano che si tagliò i ciglioni per far dispetto alla moglie, la farsa si trasformò in tragedia. Addirittura a Ginevra Calvino instaurò una teocrazia dove si rischiava la forca per il semplice fatto di aver ballato.



O come nel 1525, quando i contadini tedeschi si sollevarono: se v’era stata soppressione per ogni forma di ordine costituito, non era forse il caso che a loro venissero tolti dazi e gabelle che tanto li opprimevano?



Io direi che non faceva una piega, e Lutero si fece portatore delle loro lagnanze presso i nobili: “Nobili diletti, liberateci, aiutateci, abbiate pietà della povera gente che siamo: infilzate, colpite, sgozzate finché potete... Un anarchico non è degno che gli si portino delle ragioni, poiché non le accetta. E' con il pugno che si deve rispondere a questa gente!".



E di fronte alle rimostranze di alcuni amici per tanta durezza, egli replicò ancor più aspramente: "L'asino vuol ricevere percosse e il popolo vuole essere governato con la forza. Dio lo sapeva bene, dal momento che non ha dato ai governanti una coda di volpe, bensì una spada!". I nobili lo presero sul serio e la sommossa fu soffocata nel sangue. A Franckenhausen il duca di Lorena fece trucidare ventimila ribelli che si erano già arresi.



E molto più sul serio lo prese re Enrico VIII.



Con l’ “Atto di Supremazia” del 1536 si consumò lo scisma anglicano e il definitivo distacco tra l’Inghilterra e la Chiesa di Roma. Ma i sentimenti religiosi non si cancellano per decreto, e a tutti i dissidenti non fu riservata sorte migliore dei contadini tedeschi.



Tutto quel marasma per cosa poi? Perché il papa non volle concedere al re l’annullamento del matrimonio affinché potesse sposare Anna Bolena, detta “Nannarel” (che tra l’altro re Enrico fece giustiziare pochi anni dopo).



Sapeste la contentezza di quei guerrieri turchi. Uno spasso veder tante crepe e lotte intestine fra i cristiani.



Ed è in questo clima difficile che prese avvio la mia strana avventura.


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